ambivalenza 

 

 

 

 


Casella di testo: “ Chi sacrifica la propria onnipotenza, è destinato a mostrare a se stesso la propria ambivalenza, il particolare umano, e quando questo processo avviene, egli  riconosce la sua innocenza”.
                                                                         P.Occhiolini


                                                                                                              

                                                                                            

 

 

L’individuo che sperimenta il sentimento dell’ambivalenza sente di avere due anime.

La dimora dei contenuti rimossi, di ciò che per noi è oscuro e perturbante, e perciò non ancora accessibile alla coscienza, è lo spazio della psiche che Jung chiama: Ombra. Spazio della psiche che per il suo carattere ambiguo non è mai integralmente risolvibile. L’Ombra provoca la coscienza, ma non presentandosi mai completamente, confonde la coscienza che ha bisogno di stimoli chiari nel loro significato, e l’insensatezza scompiglia la psiche e la indebolisce del suo equilibrio. Eppure non è l’Ombra che deve presentarsi con un suo senso, bensì è la coscienza che deve dare un senso agli impulsi dell’inconscio, ed è per questa difficile operazione che la psiche si configura. Questo processo coincide con la propria individuazione.

 

Casella di testo: “ L’Ombra è proprio la parte di sé irriconoscibile, il proprio volto quando la luce ne è assorbita totalmente. Lungi dall’opporsi alla luce, essa ne è esaltata, richiamata in vita, è la sua eco. ” 
(Carotenuto, 1997)
 

 

 

 

 


La visione psicologica dell’ambivalenza è vedere il margine estremo fra visibile e invisibile, così che le opposizioni distinte si animano su uno sfondo nitido, che creano realtà potenziali, plastiche, immagini la cui profondità è distinguibile. Ciò rende possibile il contatto con il conflitto intrapsichico.

L’accessibilità alla significazione diviene l'unico elemento di risposta e di restituzione dell'angoscia trasformata in consapevolezza, poiché, come asserisce Nietzsche: “solo l’errore può essere interpretato”, e l’ambivalenza è una sorta di errore, un equivoco, poiché è l’autentica espressione di una spettacolare e paradossale contraddizione.

 

Il significato è il soggetto di un'assenza, mentre la negazione o rimozione dei contenuti significativi dà origine ad un vuoto incomprensibile, che alimenta la produzione emotiva di una irrefrenabile ansietà.

 

  

Casella di testo: Nella tua incoscienza è la coscienza 
che in te la storia vuole, questa storia 
il cui Uomo non ha più che la violenza 
delle memorie, non la libera memoria... 
E ormai, forse, altra scelta non ha 
che dare alla sua ansia di giustizia 
la forza della tua felicità, 
e alla luce di un tempo che inizia 
la luce di chi è ciò che non sa. 


Pier Paolo Pisolini
da Il canto popolare  
(1952-53)

 

 Pier Paolo Pasolini

 di Barbara Cristofanelli

 

Ma un significato dato non rischiara il cielo di un'esistenza. La significazione è un lungo processo, una notte boreale che non diventa mai giorno, dove l’attimo è l’eternità e il bagliore è un'illusione. Seguendo questo percorso, da un’oscurità si passa ad un'altra oscurità, e forse, ancora più torva.

 

La più banale emozione attiva un'agitazione insospettabile, come l’ombra di un nano che al tramonto diventa un gigante.

Tale stato di ansietà acutizza l’impotenza, e la persona che la vive avverte nel suo intimo che molto presto l'indebolimento delle forze lo porterà al dubbio, che equivale all’inizio del riconoscimento del proprio lato oscuro.

 

Casella di testo: “Così ci si lascia sprofondare, si scava nell'anima; poiché nell'emozione data dal dolore, dalla disperazione, dall'ossessione, vi è almeno la sensazione di vivere, anche se si è in un circolo chiuso. L'anima si dispera, è tormentosa, sconvolta. Sorgono impulsi ossessivi, si perde il dominio di sé, si va alla deriva.”   (Binswanger, 1960, pag.57)
 

 

 

 

 

 


Incatenati e impressionati dalle troppe oscurità dell’esistenza, il rischio inevitabile è la fuga, un influsso difen­sivo che porta la risoluzione della condizione tormentosa. La formazione reattiva messa in atto per ridurre o sopprimere i turbamenti dell’angoscia, può rivelarsi più o meno patologica. Nei casi più gravi si attiva la produzione di meccanismi di scissione, che spaccano la dinamicità inconscia, un antidoto che frantuma la psiche, lasciando parti autonome gestite solo dall'inconscio, e libere di agire senza al­cuna relazione con la coscienza. Le difese operano senza limiti, inconsapevolmente, annientando l'integrazione in un tutto omogeneo. Più comunemente: l'uomo che non si assume l’impegno del riconoscimento del problema mo­rale che è annidato in lui, in quanto causa di un sacrificio che mette a dura prova l’intera personalità, attiva meccanismi di difesa, quali il diniego, la rimozione, la proie­zione, ecc., atteggiamenti che la psiche adotta al fine di tenere distante l'esperienza del dolore.

   Se ne deduce che nella lotta fra l’uomo e la natura del dolore non è quest’ultima a prendere l'iniziativa, e neanche l'uomo, poiché essi sono correlati e inscindibili, ma sembra che s'interponga la sfida, la rabbia, l'intol­leranza, dove la natura del dolore è la provocazione, e l'uomo la combatte, una collera che non riconosce il proprio avversario come il più intimo alleato, e dunque, inconsapevole, alimenta la sua provocarietà.

La lotta si rivela un equivoco, poiché l’uomo vince perdendosi, combattendo contro un avversario che è se stessi.

 

Il bisogno di confinare le cose interne, quelle che presagiscono il dolore, con la fatica offensiva di chi difende il proprio spazio mentale edificando “alte barriere”, non crea una forza imbattibile, crea invece un oggetto che facilmente è consumato dal desiderio di essere assalito. Qualcuno o qualcosa prima o poi rivelerà l'inganno, una sovrastruttura che presto mo­strerà i suoi punti deboli, l’aspetto vulnerabile, la sua umanità.

La nostra psiche, o mondo interiore, diviene un campo di battaglia, ove cresce e si fortifica la potenza distruttiva del conflitto.

Casella di testo: “ E’ giusto pensare che l’uomo prepari la propria sventura fuggendola. Pascal sapeva che la felicità è in un solo luogo e che dimora fra quattro muri; si tratta di sapere quali “.      
(Joe Bousquet, 1941)
 

 

 

 

 


La ricerca di senso richiede la conquista della solitudine, che non rinnega l’esperienza del silenzio. Si tratta di una ‘deriva’ di senso.  

 

   Jaspers, in "Il trascendere formale" (Filosofia, 1932), afferma: <<Se la coscienza diventasse l'essere sarebbe senza terreno, se diventasse l'inconscio mancherebbe di chiarezza e sarebbe come se non fosse. La co­scienza e l'inconscio invece di essere pensati separatamente come fac­ciamo noi nell'esserci, e di essere sperimentati solo in un rapporto di reci­proca appartenenza, diventano, nell'identità impensabile, la Trascendenza, che come pienezza dell'inconscio unito alla sua assoluta chiarezza, sarebbe ad un tempo sia l'uno che l'altra>>. (Jaspers, “Metafisica”, 1995 p.161)

Casella di testo: “ Il dolore non sarà mai stato altro che una delle forme dell’attesa, un’aria che il tempo si dava per insegnarmi ad amare. ”
(Joe Bousquet, 1941)
 

 

 

 

 

 


Se il giorno è luce e chiarezza, mentre la notte è oscurità e non chiarezza, c'è un attimo in cui uno stato muore e cede il passo all'altro. Qui non vi è né giorno né notte. Nessuno potrebbe dire, se aprisse gli occhi in quest'istante che è l'alba o il tramonto, l'uno è esattamente nell'altro come se si annullas­sero a vicenda, come se non esistessero, un nuovo orizzonte privo di defini­zione, in quanto ambiguo e perciò non precisabile, quello che ora è non è dopo, è un attimo, un'eternità, è un vuoto e insieme un pieno, è l'unità, il non di­cibile, l’inafferrabile,  il limite dove è necessario abbandonare ogni certezza. Ci si apre alle infinite possibilità della psiche, all'humus dell'esistenza: ora è possibile comprendere l'intima natura dell'esistenza.

 

La depressione, la malinconia, l'angoscia (non è importante definire uno stato psicologico che l'anima sperimenta durante il processo di significazione o nel tentativo di procedervi), è una condizione dell’anima che si dipinge più significativamente con una immagine: l'interminabile notte di chi sperimenta la pro­pria trasformazione, un ripiegamento su se stessi che prepara il cambia­mento della propria identità a partire da una nuova qualità dell'ascolto, una nuova capacità di interpretare il linguaggio che cerca di comunicare con noi, e che non avevamo mai potuto comprendere perché impreparati.

 

Casella di testo: “ Penso dove non sono, dunque sono dove non penso.”
(Lacan, 1966, p. 512)
 

 

 

 


L’inconscio è senz’altro un’ipotesi. Con questo termine qualifichiamo il lato oscuro della psiche. L’inconscio, dimora dell’ignoto, accoglie i contenuti che risultano non avere senso, e rimarranno tali fino a quando non verranno riconosciuti dalla coscienza, dando loro un senso. L’inconscio non usa una comunicazione diretta, diversamente provocherebbe l'effetto valanga della psicosi, è invece costretto a fare i conti con la ragione, con la psiche cultu­rale, che a sua volta si irrigidisce nel confronto con la natura dell’inconscio.

La coscienza è l’ipotesi di uno spazio psichico dove abitano contenuti caratterizzati da ‘senso’. Per questa qualità la coscienza possiede una sua intenzionalità concreta, che a sua volta affonda le sue radici nell’inconscio.

Sono due linguaggi diversi e tortuosi, da una parte la ragione condizionata dai dogmi ricevuti in eredità, dall'altra un linguaggio incomprensibile, comunicazione in codice, un sistema di simboli.

C'è un unico linguaggio della psiche che non compro­mette né l'integrità della coscienza né l'ardore dell'inconscio, bensì rende possibile la loro interazione in una espressione percepibile, ed è il movimento implicito nella metafora, allegoria amplificatrice e suggestiva, dove è possibile rintracciare i simboli, elementi fondanti en­tro i quali si schiudono le tensioni utili per la significazione.

Il movimento che caratterizza una metafora è il linguaggio con cui il simbolo si rappresenta, la produzione più creativa del pensiero, l'espressione più autentica che l'umanità possiede.

La poesia, il sogno, l'arte tutta, la filosofia, la psicoanalisi, la religione, ecc., sono tutte metafore, forme simboliche. Un modello vale l'altro se il linguaggio specifico fosse lo stesso. Ciò che fa la differenza e muta la rappresentazione sono solamente i codici simbolici, niente di più.

 Il labirinto semantico crea infinite possibilità di simboleggiare un'espe­rienza, all'interno di esse fecondano nuovi simboli generatori. Come bambole russe i simboli si autoriproducono, e quando un simbolo  svela il segreto, o significato che mantiene al suo interno, la sua ambivalenza cessa di esistere, la tensione si smagnetizza e il simbolo muore. La morte del simbolo, la sua perdita, produce una nuova assenza: la mancanza dell'oggetto conflittuale, ed è questa la condizione che origina il de­siderio, sollecitando il dinamismo interiore.

Il crescendo dell’esperire si produce a partire da un vuoto, da una negazione: una carenza che si protende verso una possibile pienezza, e come tale, la negazione si rivela un modo per affermare.

Se ne deduce che potenzialmente tutto è radicalmente metafora dell’assenza, ma che una cosa, o un’esperienza, sia un simbolo o meno, dipende innanzitutto dall’atteggiamento della coscienza.

Casella di testo: “Non importa quale combustibile si getti nella fornace della sofferenza e per quale causa avviene l'incendio. In un certo senso è un bene che si trovino oggetti, anche se ciò acuisce la sofferenza; poiché la vera e orribile essenza dell'angoscia, nella depressione, è la sua mancanza di oggetto. ”  
(Binswanger, "Melanconia e mania", 1960)
 

 

 

 

 

 

 


La condizione della mancanza denota un rapporto con la compensazione, il cui valore non mira a correggere l’assenza in quanto tale, ma a correggere il funzionamento di una funzione carente. Di conseguenza, la dinamica del cambiamento è in stretta relazione con l’intervento compensa­torio dell’inconscio.

Nuove creazioni metaforiche si aggirano intorno ad un nuovo simbolo, la rinnovata ambivalenza stimola l'immaginazione, e il sentimento riprende a muoversi.

Intorno a queste catene di simboli, che si generano e rigenerano, si articola l'espe­rienza del vivere, che ci rende pionieri at­tivi di questa nostra avventura che è la vita.

Casella di testo: “ Solo se siamo in grado di guadagnare quel costitutivo di noi stessi che è la distanza da noi, allora abbiamo aperto lo spazio per l’altro che, a nostra insaputa, già ci abita intimamente. ”   (U. Galimberti, 1996)
 

 

 

 


                       

Come supponeva Jung c'è sempre un’ “aria”nella nostra psiche che, come abbiamo già enunciato identifi­candola con l'Ombra, non si mostra mai completamente, per meglio dire <<…ogniqualvolta nasce un nuovo orientamento della coscienza e, dunque, una nuova visione del mondo, resta pur sempre una zona psichica che non ha po­tuto seguire integralmente il rinnovamento>>. (E. Caramazza,  1992, p.157). 

 

Ciò che terrorizza l'uomo non è percorrere nuove avventure dell'anima se si ha la consapevolezza che si è già riusciti a "superare la boa", il panico sorge quando si ha il sospetto di non aver ancora superato l'angoscia come si era creduto. Quando l’individuo trasforma la sua angoscia, e ritrova il sentimento per il suo essere, egli realizza che la “boa” è sempre e comunque avanti a se. Ciò che cambia è il modo di intendere e di percepire la “boa” che comunque è dinanzi a noi.

E' in questo senso che è riconoscibile la sottile e la impercettibile differenza tra la sofferenza e il dolore, apparentemente insignificante ma sostanziale.

 

Essere vissuti dall’angoscia è la sofferenza, la percezione del dolore in una certa condizione psicologica è vivere l’esperienza dell’angoscia.

 

Il soffrire e il dolore sono patimento e sacrificio, rispettivamente colpa e desiderio, morte e vita. La prima condizione è estranea alla coscienza, la seconda è l’intima conferma della sua intrinseca intenzionalità nella ricerca del significato.

 

La lacerazione del dolore apre uno spazio interno ove è possibile ricer­care i significati del linguaggio inconscio, per condividere e interagire  con la sua intenzionalità.

Il patimento della sofferenza, non rende possibile l'apertura ad uno spa­zio di dialogo con il proprio essere inconscio, in quanto è un "portare den­tro” e non un " vedere dentro”. 

 

  Portare dentro provoca la possibilità, ma se la sofferenza rimane statica è un atto che non porta a nulla se non a subire una lacerante condizione di alie­nazione, un peso che graverà al punto da immobilizzare ogni deside­rio, è l’agonia, uno stato senza senso, sterile, che non produce alcuna trasformazione, e rimanervi a lungo può diventare estremamente pericoloso, perché è uno stato psicologico che devasta solamente. 

 

Vedere dentro è la possibilità che abbiamo di entrare in contatto con il linguaggio simbolico che contiene il senso dell'esperienza, e che continuamente conferisce un aspetto nuovo che si nasconde fino a quando non viene riconosciuto. Chi vive il sentimento del dolore, sente continuamente il desiderio di comprenderne la causa. Chi ‘porta dentro’ e guarda passivamente la fenomenologia del proprio soffrire non può riconoscere l’importanza delle proprie domande, egli le altera così che l’immaginazione e la memoria si adagiano. ‘Vedere dentro’: è un alzare lo sguardo, e questa intenzione dà spazio alla visione. Una visione che riconosce ciò che è dentro a noi differenziandolo da ciò che è esterno a noi, essa facilita la comprensione della fenomenologia della propria inquietudine.

Parlare di ciò che è fuori di noi e di ciò che è dentro, è parlare delle proprie proiezioni e identificazioni negative, ossia, quei meccanismi che tendono ad alterare il funzionamento della psiche.

 

L’esperienza del dolore trova giustificazione in un percorso di ricerca del significato che prepara la psiche alla realizzazione di un fine, un obiettivo, in relazione al quale è possibile la trasformazione delle modalità non più funzionali dell’individuo. La scoperta di nuove funzionalità della psiche, a partire da una maggiore consapevolezza di sé, può costituire il nascimento dell’identità che sottende al funzionamento delle modalità della psiche.

Casella di testo: “L’aumentata autocoscienza è una risposta sufficientemente valida alla sofferenza della vita che, altrimenti, sarebbe senza significato ed invivibile. ”       (C.G. Jung, Letters, vol.2, 1975, p.310-311)
 

 

 

 

 

 


L’inconscio esiste e fa esistere la psiche dal momento in cui è possibile una comunicazione interna tra le differenze e le discrepanze della psiche, se tutto fosse indifferenziato non potrebbe esservi una comunicazione né interna né esterna, e non si potrebbe parlare di psiche, che è il complesso dei processi psichici tanto cosci quanto inconsci, e che consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo.

 

L'uomo impara a sopravvivere secondo la propria congenialità, senza la­sciarsi sopraffare dal terrore di chi lascia fuori la porta della coscienza qualunque cer­tezza. Dunque, la trasformazione dell’angoscia è certamente l’esperienza più dolorosa che l’uomo esperisce nel corso della sua vita, poiché comporta un sacrificio che, al pari del suicidio volontario, costi­tuisce una privazione altrettanto volontaria, assumendo il privilegio di annientare le forze domi­natrici, consacrando l’istinto e la sua ac­cessibilità.

 

  Il sacrificio libera l’uomo da se stesso, che è pur sempre un distacco da sé. L’esperienza interiore è una sorta di ‘gestazione’ psicologica, e consegue il suo ‘partorimento’, e per questo processo l’uomo sacrifica se stesso per dare vita a qualcosa che non ancora conosce, in tale modo, egli rende possibile l’epifania del proprio essere.

 

L'angoscia, la morte psichica, il silenzio dell'anima, permettono lo spazio dell'assenza, della mancanza; l'intolleranza del senso di vuoto porta alla formazione del simbolo. E per ogni produzione simbolica l’attività del pensiero sperimenta il suo movimento, inquieto ma fecondatore, ambiguo ma ordinatore.

   Lentamente, scorrendo dai lontani luoghi del passato, profondi echi tor­nano a galleggiare sulle rive della coscienza, pensieri che battono alle porte del sentimento, che lasciano scie nei cieli della ragione, che come guide delineano la direzione o il senso del volo.

Casella di testo:  “ Una sorta di errore è di non aver commesso un errore; poiché bisogna sapere che ci sono errori necessari ed errori superflui! Gli errori necessari, che naturalmente sono errori relativi, non vengono generalmente compiuti per ‘paura’. Essi vengono reclamati da un certo attimo del destino... ”
(Ernst Bernhard, 1969, pag.93)
                                        

 

 

 

 

 

 

 

La scoperta di una mancanza di fondo di reali punti di orientamento, senza limiti di spazio e di tempo, liberati dai complessi ideologici, cioè da quella parte di noi discriminante e colpevolizzante che ha bloccato molto a lungo la visione elastica e intelligente dell’uomo al di là del giudizio di valore, è la strada più dolorosa, in quanto fortemente regressiva, che l’individuo deve percorrere, affinché si intraprenda il cammino verso la consapevolezza. Percorso individuale, dove gli elementi opposti presenti nel conflitto intra­psichico, proprio per la mancanza di entità con valore assoluto, tendono all’integrazione e allo scambio delle funzioni. Ciò consente la possibilità di riconoscere la morfologia del lin­guaggio simbolico dell’inconscio e l’assunzione della sua insita ambivalenza, fecondatrice e trasformativa.

 

Casella di testo: “Nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. ”

(Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini)
 

 

 

 

 

 

 


Per Jung: <<Lo stato di stagnazione è sempre caratterizzato dalla scomposizione delle coppie di contrari. (...) Nella stagnazione della libido, nella quale la progressione è diventata impossibile, si e no non possono più raggiungere valori uguali capaci di equilibrarsi a vicenda. Quanto più dura la stagna­zione, tanto più sale il valore delle posizioni opposte, che di conseguenza si arricchiscono di associazioni e si annettono sempre nuove province del materiale psichico. La tensione provoca un conflitto; il conflitto porta a tentativi di reciproca rimozione, e quando la rimozione del polo opposto riesce, ecco subentrare la dissociazione, la “scissione della personalità”, la mancata unità con se stessi, ed ecco quindi nascere una possibilità di nevrosi>>.

(Jung, 1928, vol. 8° p.42)

 

E’ questo il senso dell’ambivalenza: l’uccisione dell’<<altro>> che nel nostro intimo si è insediato malgrado noi, e il conseguente rimorso per aver tradito ciò che ci assicurava un apparente senso di tranquillità.

L’uccisione dell’<<altro>> è il gesto d’amore che libera la nostra soggettività, condizione necessaria affinché si instauri una dialettica fra le polarità opposte della psiche. Ma di fatto, l’uccisione annuncia anche la visione del lato più oscuro del sentimento umano, l’orrore dell’inconsueto. 

 

La realizzazione della propria individualità coincide con l’accettazione della propria diversità, ma per raggiungere tale scopo è necessario tradire le aspettative di chi ci vorrebbe in un “certo modo”, e tradire com­porta la risoluzione dei legami oppressivi e involutivi, che spesso incontriamo, o che “erroneamente” cerchiamo. Quest’ultimo è il caso dei morbosi legami fusionali, che ripropongono la stessa dinamica repressiva e castrante che si era vissuta nella famiglia di origine. In quanto il legame di origine è l’unico modello di relazione che conosciamo, e che ha contribuito a formare la nostra personalità e complessualità, è nel riproporlo in un rapporto di coppia, o altra relazione affettiva, che disponiamo della possibilità di elaborare e trasformare la relazione involutiva in una relazione evolutiva, divenendo capaci di relazionare con noi stessi e con gli altri.

A volte, il bisogno inquieto di scappare dalle condizioni repressive, può portare a risoluzioni eccessive, dram­matiche, e non è insolito ascoltare storie di omicidio dei propri familiari o del proprio partner, persino dei propri figli. Ma questi sono i massimi esempi di quanto la natura umana, quando è scissa (malata) o “semplicemente” disturbata, riesce ad organiz­zare e ad agire.

 

   In “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyide” di Robert Louis Stevenson, è evidenziata con estrema drammaticità, l’impossibilità per la doppiezza a vivere una storia d’amore. Una natura depressiva e una mania­cale, una personalità mite e riflessiva, l’altra violenta e onnipotente, e alla fine sarà la morte a ricongiungerle.

 

Dal racconto di Stevenson:

 

 <<L’individuo umano in verità non è uno ma due. (...) Fu in me stesso, e in campo morale, che imparai a riconoscere il dualismo completo e primordiale dell’uomo. Vidi che, se potevo a buon diritto considerarmi l’uno e l’altro dei due individui che si contendevano il campo della mia coscienza, ciò si doveva al fatto che ero radicalmente ambedue. (...) Avevo imparato a vagheggiare, come fantasticheria prediletta, l’idea di scindere tali elementi. Se ciascuno di essi, mi dicevo, potesse venire alloggiato in distinte identità, la vita si trove­rebbe liberata da tutto ciò che è insopportabile. (...) Era una maledizione per il genere umano che quegli eterogenei grovigli fossero così vincolati, che nel grembo tormentato della coscienza quei poli gemelli dovessero stare in conti­nua lotta>>. (R. L. Stevenson  1963, p.440)

 

 

  Jung pensava che il conflitto è la condizione per progredire nella conoscenza e nella libertà. Egli  intravede tuttavia la  possibilità di uno stato “libero da opposizioni”,  in cui il rapporto tra coscienza e in­conscio si articolerebbe in una sorta di adeguazione flessibile. 

  La risoluzione della conflittualità  non è certo nell’allontanamento dei conflitti, o essere al di là del dilemma esistenziale, poiché tale atteggiamento equivarrebbe a quello adottato dal personaggio di Stevenson. La grande difficoltà  risiede invece nell’essere capaci di vivere il conflitto, superabile solo quando si sarà trovato “il personale e autentico modo di esperirlo”, e dunque, il più ‘conveniente’ per la propria qualità psicologica.    Conveniente è ciò che stimola il processo creativo della psiche: la psiche crea sé stessa.

 

La tragedia dell’anima è un verso, un sogno, un incubo, un fatto che non si può negare, e se rimosso torna allo stesso modo di un boomerang.

 

Quando si è compreso l’elemento iniziatico alla vita, cioè l’impossibilità a prescindere dalla nostra Ombra, poiché, come disse più volte Jung nella sua appassionante opera: <<quello che non si vuole sapere di se stessi fi­nisce per arrivare dall’esterno come un destino>>, si è disposti a tutto pur di non tradire la propria integrità psicologica, e solo allora sarà vero che il destino lo avremo fatto noi, partorito dal nostro interno.

 

   Per questa direzione il processo d’individuazione è cominciato, si è consapevoli che ciò che può suc­cedere lo avremo voluto noi: le condizioni affinché l’imprevisto succede sa­ranno l’immagine delle nostre domande, e il modo di fronteggiare gli eventi saranno le nostre ri­sposte. Il perturbante che ne segue diverrà la più esauriente delle possibilità affinché si renda attuabile l’incontro con  la  nostra Ombra, quella parte di noi che è: “l’inquietante estraneità”.

Il perturbante è l’attimo in cui si riattiva  il sentimento rimosso.

Il dolore che sentivamo allora torna a farsi sentire, il grido di disperazione non è più una “eco”, ma una realtà che ci assale nel presente, la prova che non si è perso il senso di un dialogo interrotto, e ritorna come una promessa man­tenuta.   Ora l’esperienza bisogna farla, perseverando si procede passo passo fino in fondo, non tracce ma concrete scoperte, significative verità, cambiamenti. Un per­corso che ci conduce verso il riconoscimento del nostro spazio interiore.

 

Casella di testo: “… il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. ”
(S. Freud, 1919)
 

 

 

 

 

 


A volte può bastare un ricordo, vero, non vero, non importa, a mantenere vivo lo sforzo che da sempre abbiamo compiuto per tentare di salvaguardare la nostra alterità.  Non è il recupero del ricordo in sé che aiuta a comprendere la causa del nostro dramma interiore, esso al massimo, può essere un pretesto che attiva il fine dell’individuo. L’individualità è finalizzata a dare un senso all’esistenza di un uomo, essa rende credibile l’idea di sé stessi e del mondo.

 

  Massima espressione di ambivalenza è appunto: l’alternanza fra l’amore e la sua lon­tananza, che per il bambino è una questione di vita o di morte. L’amore porta alla dipendenza, mentre la lontananza all’autonomia. Dunque, l’amore comporta la rinun­cia della propria autonomia, mentre la lontananza comporta la rinuncia dell’oggetto amato.

 

Continuamente un individuo è sottoposto a laceranti conflitti: frustrazioni che sicuramente lo fanno migliorare, ma dentro di lui si moltiplicano ferite, che con il tempo si cicatrizzano e che sembra  non possano più far male.

   Ma la verità è un’altra, quelle ferite continuano a sanguinare, ciò che non le fa do­lere sono artificiose medicazioni, compromessi, che alla stregua di far­maci allopatici  intervengono sul sintomo, alleviano il dolore, lo rendono sopportabile, vivibile, ma tralasciano le cause e le conseguenze. In questo modo il “non-senso” rimane una sorta di in­fezione non curata, un virus rintanato in un bozzolo protettivo che al minimo cedimento di tale protezione si riattiva come in passato.

Casella di testo: “Poiché non posso divincolarmi dall’obiettività che mi opprime 
né dalla soggettività che mi esilia, poiché non mi è possibile 
né di innalzarmi sino all’essere né di cadere nel nulla,
bisogna che ascolti. Bisogna che guardi intorno a me
più che mai: il mondo, mio simile, mio fratello. ”
(Jean-Luc Godard)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Nei sogni si agitano continuamente intuizioni inconsce, la sensazione è la coscienza di tali intuizioni. Quando abbiamo la sensazione che quel sogno ci vuole comunicare un’intuizione importante, questo può essere l’inizio di un lungo lavoro con noi stessi.

 

Quando la sensazione è ascoltata, si esaudisce la progettualità dell’evento o provocazione dell’inconscio. La sensazione colma la distanza incolmabile, e il desiderio tocca il suo oggetto d’amore. Tale processo rende vitale il “gene originario” della psiche: il movimento verso la trasformazione del pensiero, e la sua forma.

 

<<Bisogna essere in grado di intuire l’intuizione!>>

 

Jung descrive l’attività del sogno:

<<La metà almeno della nostra vita psichica ha il nostro essere notturno per teatro; e come la coscienza estende le sue ramificazioni fin dalle nostre notti, così l’inconscio emerge nella nostra vita diurna. (...) Chiamo i sogni “compensatori”, giacché contengono delle percezioni, dei sentimenti e dei pensieri la cui mancanza lascia al conscio un vuoto che è riempito dalla paura anziché esserlo dall’intelligenza. (...) Secondo me, i sogni sono natura, che non nasconde la minima intenzione ingannatrice e che dice quello che essa ha da dire come pure quello che può dire - come fa una pianta che spunta o un animale che cerca il suo cibo. (...) Il sogno ci comunica in un linguaggio simbolico, cioè con l’aiuto di rappresentazioni immaginifiche sensoriali, idee, giudizi, concezioni, tendenze.... che, represse o ignorate, erano inconsce>>.

(Jung, op. cit., E.G. Humbert, 1983, pag. 26,27,28).

 

I sogni sono lo schermo di un’attività inconscia che tende a mostrarsi visibilmente, e se l’intenzionalità della coscienza è tesa verso la significazione di tale visione psicologica, può avvenire la compenetrazione dei significati intrinseci al sogno. Se i meccanismi difensivi attivano la rimozione dei contenuti onirici, anche l’esperienza del sogno, quale possibilità accessibile all’esperienza della coscienza, rimane taciuta, e il sogno viene immediatamente dimenticato.

Casella di testo: “Abbiamo volato là dove nessun cammino era tracciato.”
(R. M. Rilke)

“Segreto nascosto nel segreto, che sfugge al sapere,
che si apre interamente all’innocenza.”
                                            (Edmond Jabes)
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


   Aprirsi all’incontro con l’“altro”, l’incontro con il nuovo, con l’estraneità, significa fare la propria esperienza. Essa costituisce lo spazio privato e inalterabile perché non condivisibile. In questo spazio io mi manifesto e mi apro alla possibilità di comprendere un “nuovo modo di essere al mondo”, ma soprattutto il mio modo di essere al mondo, il mio intimo segreto.

 La libertà dell’individuo risiede proprio nel ritrovamento di una individuale formula che non precluda l’ineluttabile ambivalenza dell’essere al mondo.

Casella di testo: “Se è vero che i soli paradisi sono quelli perduti,
so come chiamare la cosa tenera e inumana che oggi è in me.”

(A.Camus, “Il rovescio e il diritto”, 1959, 29)
 

 

 

 

 

 

 

 

 


Borges nel suo “Elogio dell’ombra” (1969): Finché dura il rimorso dura la colpa”.

La visione terminale del proprio essere eleva l’uomo al punto che egli è capace di fissare nell’oscurità del suo mondo interiore, e di trovare la luce senza rimanerne accecati.

  Il significato del proprio lamento interiore, si nasconde all’interno del disordine, nell’imprevedibile, nell’incerto, in quanto nell’intimo del disordine risiede la strategia dell’ordine e del senso di ogni cosa.

La differenziazione permette la comunicazione, il confronto, e di conseguenza la relazione, senza della quale non vi sarebbe alcuna possibilità di pensiero, e dunque, la sua trasformazione.

 

Non importa quando e come si commette “l’errore”, ciò che conta è che dalle macerie dell’espressione estrema risorga un nuovo atteggiamento psicologico, disposto a mutare il punto di vista.

  Finché rimaniamo generici chiunque può imitarci, mentre il nostro particolare non può imitarlo nessuno; perché? perché gli altri non lo hanno vissuto.

Goethe

Casella di testo: “Mi ricordo di aver compiuto io stesso la mia incarnazione quella notte, 
invece di averla ricevuta da un padre e da una madre.” (Antonin Artaud)

“ L’uomo conosce la morte fino al midollo, fino all’osso; l’uomo ha creato la morte. Cioè, l’uomo ha coscienza della morte, il che vuol dire la coscienza del futuro e la memoria del passato. ”
(Jorges Luis Borges, 1985, pag.37)


“ Che noi siamo ancora vivi,  questa è la nostra colpa. ”
(K. Jaspers, 1965)