L’individuo che sperimenta
il sentimento dell’ambivalenza sente di avere due anime.
La dimora dei contenuti
rimossi, di ciò che per noi è oscuro e perturbante, e perciò non ancora
accessibile alla coscienza, è lo spazio della psiche che Jung chiama: Ombra. Spazio della psiche che per il suo carattere
ambiguo non è mai integralmente risolvibile. L’Ombra
provoca la coscienza, ma non presentandosi mai completamente, confonde la
coscienza che ha bisogno di stimoli chiari nel loro significato, e
l’insensatezza scompiglia la psiche e la indebolisce del suo equilibrio. Eppure
non è l’Ombra che deve presentarsi con un suo senso, bensì è la coscienza che deve
dare un senso agli impulsi dell’inconscio, ed è per questa difficile operazione
che la psiche si configura. Questo processo coincide con la propria
individuazione.
La visione psicologica dell’ambivalenza è
vedere il margine estremo fra visibile e invisibile, così che le opposizioni
distinte si animano su uno sfondo nitido, che creano realtà potenziali,
plastiche, immagini la cui profondità è distinguibile. Ciò rende possibile il
contatto con il conflitto intrapsichico.
L’accessibilità alla significazione diviene
l'unico elemento di risposta e di restituzione dell'angoscia trasformata in
consapevolezza, poiché, come asserisce Nietzsche: “solo l’errore può essere
interpretato”, e l’ambivalenza è una sorta di errore, un equivoco, poiché è
l’autentica espressione di una spettacolare e paradossale contraddizione.
Il significato è il soggetto di un'assenza,
mentre la negazione o rimozione dei contenuti significativi dà origine ad un
vuoto incomprensibile, che alimenta la produzione emotiva di una irrefrenabile
ansietà.
Pier Paolo Pasolini
di Barbara Cristofanelli
Ma un significato dato non rischiara il cielo
di un'esistenza. La significazione è un lungo processo, una notte boreale che
non diventa mai giorno, dove l’attimo è l’eternità e il bagliore è
un'illusione. Seguendo questo percorso, da un’oscurità si passa ad un'altra
oscurità, e forse, ancora più torva.
La più banale emozione attiva un'agitazione
insospettabile, come l’ombra di un nano che al tramonto diventa un gigante.
Tale stato di ansietà acutizza l’impotenza, e
la persona che la vive avverte nel suo intimo che molto presto l'indebolimento
delle forze lo porterà al dubbio, che equivale all’inizio del riconoscimento
del proprio lato oscuro.
Incatenati e impressionati
dalle troppe oscurità dell’esistenza, il rischio inevitabile è la fuga, un
influsso difensivo che porta la risoluzione della condizione tormentosa. La
formazione reattiva messa in atto per ridurre o sopprimere i turbamenti
dell’angoscia, può rivelarsi più o meno patologica. Nei casi più gravi si
attiva la produzione di meccanismi di scissione, che spaccano la dinamicità
inconscia, un antidoto che frantuma la psiche, lasciando parti autonome gestite
solo dall'inconscio, e libere di agire senza alcuna relazione con la
coscienza. Le difese operano senza limiti, inconsapevolmente, annientando
l'integrazione in un tutto omogeneo. Più comunemente: l'uomo che
non si assume l’impegno del riconoscimento del problema morale che è annidato
in lui, in quanto causa di un sacrificio che mette a dura prova l’intera
personalità, attiva meccanismi di difesa, quali il diniego, la rimozione, la
proiezione, ecc., atteggiamenti che la psiche adotta al fine di tenere
distante l'esperienza del dolore.
Se ne deduce che nella lotta
fra l’uomo e la natura del dolore non è quest’ultima a prendere l'iniziativa, e
neanche l'uomo, poiché essi sono correlati e inscindibili, ma sembra che
s'interponga la sfida, la rabbia, l'intolleranza, dove la natura del dolore è
la provocazione, e l'uomo la combatte, una collera che non riconosce il proprio
avversario come il più intimo alleato, e dunque, inconsapevole, alimenta la sua
provocarietà.
La lotta si rivela un equivoco, poiché l’uomo
vince perdendosi, combattendo contro un avversario che è se stessi.
Il bisogno di confinare le cose interne,
quelle che presagiscono il dolore, con la fatica offensiva di chi difende il
proprio spazio mentale edificando “alte barriere”, non crea una forza
imbattibile, crea invece un oggetto che facilmente è consumato dal desiderio di
essere assalito. Qualcuno o qualcosa prima o poi rivelerà l'inganno, una
sovrastruttura che presto mostrerà i suoi punti deboli, l’aspetto vulnerabile,
la sua umanità.
La nostra psiche, o mondo interiore, diviene
un campo di battaglia, ove cresce e si fortifica la potenza distruttiva del
conflitto.
La ricerca di senso
richiede la conquista della solitudine, che non rinnega l’esperienza del
silenzio. Si tratta di una ‘deriva’ di senso.
Jaspers, in "Il trascendere formale"
(Filosofia, 1932), afferma: <<Se la coscienza diventasse l'essere
sarebbe senza terreno, se diventasse l'inconscio mancherebbe di chiarezza e
sarebbe come se non fosse. La coscienza e l'inconscio invece di essere pensati
separatamente come facciamo noi nell'esserci, e di essere sperimentati solo in
un rapporto di reciproca appartenenza, diventano, nell'identità impensabile,
la Trascendenza, che come pienezza dell'inconscio unito alla sua assoluta
chiarezza, sarebbe ad un tempo sia l'uno che l'altra>>. (Jaspers,
“Metafisica”, 1995 p.161)
Se il giorno è luce e
chiarezza, mentre la notte è oscurità e non chiarezza, c'è un attimo in cui uno
stato muore e cede il passo all'altro. Qui non vi è né giorno né notte. Nessuno
potrebbe dire, se aprisse gli occhi in quest'istante che è l'alba o il
tramonto, l'uno è esattamente nell'altro come se si annullassero a vicenda,
come se non esistessero, un nuovo orizzonte privo di definizione, in quanto
ambiguo e perciò non precisabile, quello che ora è non è dopo, è un attimo,
un'eternità, è un vuoto e insieme un pieno, è l'unità, il non dicibile,
l’inafferrabile, il limite dove è
necessario abbandonare ogni certezza. Ci si apre alle infinite possibilità
della psiche, all'humus dell'esistenza: ora è possibile comprendere l'intima
natura dell'esistenza.
La
depressione, la malinconia, l'angoscia (non è importante definire uno stato
psicologico che l'anima sperimenta durante il processo di significazione o nel
tentativo di procedervi), è una condizione dell’anima che si dipinge più
significativamente con una immagine: l'interminabile notte di chi sperimenta la
propria trasformazione, un
ripiegamento su se stessi che prepara il cambiamento della propria identità a
partire da una nuova qualità dell'ascolto, una nuova capacità di interpretare
il linguaggio che cerca di comunicare con noi, e che non avevamo mai potuto
comprendere perché impreparati.
L’inconscio
è senz’altro un’ipotesi. Con questo termine qualifichiamo il lato oscuro della
psiche. L’inconscio, dimora dell’ignoto, accoglie i contenuti che risultano non
avere senso, e rimarranno tali fino a quando non verranno riconosciuti dalla
coscienza, dando loro un senso. L’inconscio non usa una comunicazione diretta,
diversamente provocherebbe l'effetto valanga della psicosi, è invece costretto
a fare i conti con la ragione, con la psiche culturale, che a sua volta si
irrigidisce nel confronto con la natura dell’inconscio.
La coscienza è l’ipotesi di uno spazio
psichico dove abitano contenuti caratterizzati da ‘senso’. Per questa qualità
la coscienza possiede una sua intenzionalità concreta, che a sua volta affonda
le sue radici nell’inconscio.
Sono due linguaggi diversi e tortuosi, da una parte
la ragione condizionata dai dogmi ricevuti in eredità, dall'altra un linguaggio
incomprensibile, comunicazione in codice, un sistema di simboli.
C'è un unico linguaggio della psiche che non
compromette né l'integrità della coscienza né l'ardore dell'inconscio, bensì
rende possibile la loro interazione in una espressione percepibile, ed è il
movimento implicito nella metafora, allegoria amplificatrice e suggestiva, dove
è possibile rintracciare i simboli, elementi fondanti entro i quali si
schiudono le tensioni utili per la significazione.
Il movimento che caratterizza una metafora è
il linguaggio con cui il simbolo si rappresenta, la produzione più creativa del
pensiero, l'espressione più autentica che l'umanità possiede.
La poesia, il sogno, l'arte tutta, la
filosofia, la psicoanalisi, la religione, ecc., sono tutte metafore, forme
simboliche. Un modello vale l'altro se il linguaggio specifico fosse lo stesso.
Ciò che fa la differenza e muta la rappresentazione sono solamente i codici
simbolici, niente di più.
Il
labirinto semantico crea infinite possibilità di simboleggiare un'esperienza,
all'interno di esse fecondano nuovi simboli generatori. Come bambole russe i
simboli si autoriproducono, e quando un simbolo svela il segreto, o significato che mantiene al suo interno, la
sua ambivalenza cessa di esistere, la tensione si smagnetizza e il simbolo
muore. La morte del simbolo, la sua perdita, produce una nuova assenza: la
mancanza dell'oggetto conflittuale, ed è questa la condizione che origina il desiderio,
sollecitando il dinamismo interiore.
Il crescendo dell’esperire si produce a
partire da un vuoto, da una negazione: una carenza che si protende verso una
possibile pienezza, e come tale, la negazione si rivela un modo per affermare.
Se ne deduce che potenzialmente tutto è
radicalmente metafora dell’assenza, ma che una cosa, o un’esperienza, sia un
simbolo o meno, dipende innanzitutto dall’atteggiamento della coscienza.
La condizione della mancanza denota un
rapporto con la compensazione, il cui valore non mira a correggere
l’assenza in quanto tale, ma a correggere il funzionamento di una funzione
carente. Di conseguenza, la dinamica del cambiamento è in stretta relazione con
l’intervento compensatorio dell’inconscio.
Nuove creazioni metaforiche si aggirano
intorno ad un nuovo simbolo, la rinnovata ambivalenza stimola l'immaginazione,
e il sentimento riprende a muoversi.
Intorno a queste catene di simboli, che si
generano e rigenerano, si articola l'esperienza del vivere, che ci rende
pionieri attivi di questa nostra avventura che è la vita.
Come supponeva Jung c'è sempre un’ “aria”nella
nostra psiche che, come abbiamo già enunciato identificandola con l'Ombra, non si
mostra mai completamente, per meglio dire <<…ogniqualvolta nasce un
nuovo orientamento della coscienza e, dunque, una nuova visione del mondo,
resta pur sempre una zona psichica che non ha potuto seguire integralmente il
rinnovamento>>. (E. Caramazza,
1992, p.157).
Ciò che terrorizza l'uomo non è percorrere
nuove avventure dell'anima se si ha la consapevolezza che si è già riusciti a
"superare la boa", il panico sorge quando si ha il sospetto di non
aver ancora superato l'angoscia come si era creduto. Quando l’individuo
trasforma la sua angoscia, e ritrova il sentimento per il suo essere, egli
realizza che la “boa” è sempre e comunque avanti a se. Ciò che cambia è il modo
di intendere e di percepire la “boa” che comunque è dinanzi a noi.
E' in questo senso che è riconoscibile la
sottile e la impercettibile differenza tra la sofferenza e il dolore, apparentemente insignificante ma sostanziale.
Essere vissuti
dall’angoscia è la sofferenza, la percezione del dolore in una certa condizione
psicologica è vivere l’esperienza dell’angoscia.
Il soffrire e il dolore sono patimento e
sacrificio, rispettivamente colpa e desiderio, morte e vita. La prima
condizione è estranea alla coscienza, la seconda è l’intima conferma della sua intrinseca
intenzionalità nella ricerca del significato.
La lacerazione del dolore apre uno spazio
interno ove è possibile ricercare i significati del linguaggio inconscio, per
condividere e interagire con la sua
intenzionalità.
Il patimento della sofferenza, non rende possibile l'apertura ad uno spazio
di dialogo con il proprio essere inconscio, in quanto è un "portare dentro”
e non un " vedere dentro”.
Portare dentro provoca la possibilità, ma se la sofferenza rimane statica è un atto
che non porta a nulla se non a subire una lacerante condizione di alienazione,
un peso che graverà al punto da immobilizzare ogni desiderio, è l’agonia, uno
stato senza senso, sterile, che non produce alcuna trasformazione, e rimanervi
a lungo può diventare estremamente pericoloso, perché è uno stato psicologico
che devasta solamente.
Vedere
dentro è la possibilità che abbiamo di
entrare in contatto con il linguaggio simbolico che contiene il senso
dell'esperienza, e che continuamente conferisce un aspetto nuovo che si
nasconde fino a quando non viene riconosciuto. Chi vive il sentimento del
dolore, sente continuamente il desiderio di comprenderne la causa. Chi ‘porta
dentro’ e guarda passivamente la fenomenologia del proprio soffrire non può
riconoscere l’importanza delle proprie domande, egli le altera così che
l’immaginazione e la memoria si adagiano. ‘Vedere dentro’: è un alzare lo sguardo, e questa intenzione dà
spazio alla visione. Una visione che riconosce ciò che è dentro a noi
differenziandolo da ciò che è esterno a noi, essa facilita la comprensione
della fenomenologia della propria inquietudine.
Parlare di ciò che è fuori di noi e di ciò che
è dentro, è parlare delle proprie proiezioni e identificazioni negative, ossia,
quei meccanismi che tendono ad alterare il funzionamento della psiche.
L’esperienza del dolore trova giustificazione
in un percorso di ricerca del significato che prepara la psiche alla
realizzazione di un fine, un obiettivo, in relazione al quale è possibile la
trasformazione delle modalità non più funzionali dell’individuo. La scoperta di
nuove funzionalità della psiche, a partire da una maggiore consapevolezza di
sé, può costituire il nascimento dell’identità che sottende al funzionamento
delle modalità della psiche.
L’inconscio esiste e fa esistere la psiche dal
momento in cui è possibile una comunicazione interna tra le differenze e le
discrepanze della psiche, se tutto fosse indifferenziato non potrebbe esservi
una comunicazione né interna né esterna, e non si potrebbe parlare di psiche,
che è il complesso dei processi psichici tanto cosci quanto inconsci, e che
consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo.
L'uomo impara a sopravvivere secondo la
propria congenialità, senza lasciarsi sopraffare dal terrore di chi lascia
fuori la porta della coscienza qualunque certezza. Dunque, la trasformazione
dell’angoscia è certamente l’esperienza più dolorosa che l’uomo esperisce nel
corso della sua vita, poiché comporta un sacrificio che, al pari del suicidio
volontario, costituisce una privazione altrettanto volontaria, assumendo il
privilegio di annientare le forze dominatrici, consacrando l’istinto e la sua
accessibilità.
Il sacrificio libera l’uomo da
se stesso, che è pur sempre un distacco da sé. L’esperienza interiore è una
sorta di ‘gestazione’ psicologica, e consegue il suo ‘partorimento’, e per
questo processo l’uomo sacrifica se stesso per dare vita a qualcosa che non
ancora conosce, in tale modo, egli rende possibile l’epifania del proprio
essere.
L'angoscia, la morte psichica, il silenzio
dell'anima, permettono lo spazio dell'assenza, della mancanza; l'intolleranza
del senso di vuoto porta alla formazione del simbolo. E per ogni produzione
simbolica l’attività del pensiero sperimenta il suo movimento, inquieto ma
fecondatore, ambiguo ma ordinatore.
Lentamente, scorrendo dai
lontani luoghi del passato, profondi echi tornano a galleggiare sulle rive
della coscienza, pensieri che battono alle porte del sentimento, che lasciano
scie nei cieli della ragione, che come guide delineano la direzione o il senso
del volo.
La scoperta di una mancanza di fondo di reali
punti di orientamento, senza limiti di spazio e di tempo, liberati dai complessi
ideologici, cioè da quella parte di noi discriminante e colpevolizzante che ha
bloccato molto a lungo la visione elastica e intelligente dell’uomo al di là
del giudizio di valore, è la strada più dolorosa, in quanto fortemente
regressiva, che l’individuo deve percorrere, affinché si intraprenda il cammino
verso la consapevolezza. Percorso individuale, dove gli elementi opposti
presenti nel conflitto intrapsichico, proprio per la mancanza di entità con
valore assoluto, tendono all’integrazione e allo scambio delle funzioni. Ciò
consente la possibilità di riconoscere la morfologia del linguaggio simbolico
dell’inconscio e l’assunzione della sua insita ambivalenza, fecondatrice e
trasformativa.
Per Jung: <<Lo stato di stagnazione è sempre
caratterizzato dalla scomposizione delle coppie di contrari. (...) Nella stagnazione
della libido, nella quale la progressione è diventata impossibile, si e no non
possono più raggiungere valori uguali capaci di equilibrarsi a vicenda. Quanto
più dura la stagnazione, tanto più sale il valore delle posizioni opposte, che
di conseguenza si arricchiscono di associazioni e si annettono sempre nuove
province del materiale psichico. La tensione provoca un conflitto; il conflitto
porta a tentativi di reciproca rimozione, e quando la rimozione del polo
opposto riesce, ecco subentrare la dissociazione, la “scissione della
personalità”, la mancata unità con se stessi, ed ecco quindi nascere una
possibilità di nevrosi>>.
(Jung, 1928, vol. 8°
p.42)
E’ questo il senso dell’ambivalenza: l’uccisione dell’<<altro>> che nel nostro intimo si è insediato malgrado
noi, e il conseguente rimorso per aver tradito ciò che ci assicurava un
apparente senso di tranquillità.
L’uccisione dell’<<altro>> è il
gesto d’amore che libera la nostra soggettività, condizione necessaria affinché
si instauri una dialettica fra le polarità opposte della psiche. Ma di fatto,
l’uccisione annuncia anche la visione del lato più oscuro del sentimento umano,
l’orrore dell’inconsueto.
La realizzazione della propria individualità coincide con l’accettazione della propria
diversità, ma per raggiungere tale scopo è necessario tradire le aspettative di chi ci vorrebbe in un “certo modo”, e
tradire comporta la risoluzione dei legami oppressivi e involutivi, che spesso
incontriamo, o che “erroneamente” cerchiamo. Quest’ultimo è il caso dei morbosi
legami fusionali, che ripropongono la stessa dinamica repressiva e castrante
che si era vissuta nella famiglia di origine. In quanto il legame di origine è
l’unico modello di relazione che conosciamo, e che ha contribuito a formare la
nostra personalità e complessualità, è nel riproporlo in un rapporto di coppia,
o altra relazione affettiva, che disponiamo della possibilità di elaborare e
trasformare la relazione involutiva in una relazione evolutiva, divenendo capaci
di relazionare con noi stessi e con gli altri.
A volte, il bisogno inquieto di scappare dalle
condizioni repressive, può portare a risoluzioni eccessive, drammatiche, e non
è insolito ascoltare storie di omicidio dei propri familiari o del proprio
partner, persino dei propri figli. Ma questi sono i massimi esempi di quanto la
natura umana, quando è scissa (malata) o “semplicemente” disturbata, riesce ad
organizzare e ad agire.
In “Lo strano caso del dottor
Jekyll e di mister Hyide” di Robert Louis Stevenson, è evidenziata con estrema
drammaticità, l’impossibilità per la doppiezza a vivere una storia d’amore. Una
natura depressiva e una maniacale, una personalità mite e riflessiva, l’altra
violenta e onnipotente, e alla fine sarà la morte a ricongiungerle.
Dal racconto di Stevenson:
<<L’individuo
umano in verità non è uno ma due. (...) Fu in me stesso, e in campo morale, che
imparai a riconoscere il dualismo completo e primordiale dell’uomo. Vidi che,
se potevo a buon diritto considerarmi l’uno e l’altro dei due individui che si
contendevano il campo della mia coscienza, ciò si doveva al fatto che ero
radicalmente ambedue. (...) Avevo imparato a vagheggiare, come fantasticheria
prediletta, l’idea di scindere tali elementi. Se ciascuno di essi, mi dicevo,
potesse venire alloggiato in distinte identità, la vita si troverebbe liberata
da tutto ciò che è insopportabile. (...) Era una maledizione per il genere
umano che quegli eterogenei grovigli fossero così vincolati, che nel grembo
tormentato della coscienza quei poli gemelli dovessero stare in continua lotta>>. (R. L. Stevenson
1963, p.440)
Jung pensava che il conflitto è la condizione
per progredire nella conoscenza e nella libertà. Egli intravede tuttavia la
possibilità di uno stato “libero da opposizioni”, in cui il rapporto tra coscienza e inconscio
si articolerebbe in una sorta di adeguazione flessibile.
La risoluzione della
conflittualità non è certo
nell’allontanamento dei conflitti, o essere al di là del dilemma esistenziale,
poiché tale atteggiamento equivarrebbe a quello adottato dal personaggio di
Stevenson. La grande difficoltà risiede
invece nell’essere capaci di vivere il conflitto, superabile solo quando si
sarà trovato “il personale e autentico modo di esperirlo”, e dunque, il più ‘conveniente’ per la propria qualità
psicologica. Conveniente è ciò che
stimola il processo creativo della psiche: la psiche crea sé stessa.
La tragedia dell’anima è un verso, un sogno,
un incubo, un fatto che non si può negare, e se rimosso torna allo stesso modo
di un boomerang.
Quando si è compreso l’elemento iniziatico
alla vita, cioè l’impossibilità a prescindere dalla nostra Ombra, poiché,
come disse più volte Jung nella sua appassionante opera: <<quello che non
si vuole sapere di se stessi finisce per arrivare dall’esterno come un
destino>>, si è disposti a tutto pur di non tradire la propria integrità
psicologica, e solo allora sarà vero che il destino lo avremo fatto noi,
partorito dal nostro interno.
Per questa direzione il processo
d’individuazione è cominciato, si è consapevoli che ciò che può succedere lo
avremo voluto noi: le condizioni affinché l’imprevisto succede saranno
l’immagine delle nostre domande, e il modo di fronteggiare gli eventi saranno
le nostre risposte. Il perturbante che ne segue diverrà la più esauriente
delle possibilità affinché si renda attuabile l’incontro con la
nostra Ombra, quella parte di noi che è: “l’inquietante
estraneità”.
Il perturbante è l’attimo in cui si
riattiva il sentimento rimosso.
Il dolore che sentivamo allora torna a farsi sentire, il grido di
disperazione non è più una “eco”, ma una realtà che ci assale nel presente, la
prova che non si è perso il senso di un dialogo interrotto, e ritorna come una
promessa mantenuta. Ora l’esperienza
bisogna farla, perseverando si procede passo passo fino in fondo, non tracce ma
concrete scoperte, significative verità, cambiamenti. Un percorso che ci
conduce verso il riconoscimento del nostro spazio interiore.
A volte può bastare un ricordo, vero, non
vero, non importa, a mantenere vivo lo sforzo che da sempre abbiamo compiuto per
tentare di salvaguardare la nostra alterità.
Non è il recupero del ricordo in sé che aiuta a comprendere la causa del
nostro dramma interiore, esso al massimo, può essere un pretesto che attiva il
fine dell’individuo. L’individualità è finalizzata a dare un senso
all’esistenza di un uomo, essa rende credibile l’idea di sé stessi e del mondo.
Massima espressione di
ambivalenza è appunto: l’alternanza fra l’amore e la sua lontananza, che per
il bambino è una questione di vita o di morte. L’amore porta alla dipendenza,
mentre la lontananza all’autonomia. Dunque, l’amore comporta la rinuncia della
propria autonomia, mentre la lontananza comporta la rinuncia dell’oggetto
amato.
Continuamente un individuo è sottoposto a
laceranti conflitti: frustrazioni che sicuramente lo fanno migliorare, ma
dentro di lui si moltiplicano ferite, che con il tempo si cicatrizzano e che
sembra non possano più far male.
Ma la verità è un’altra, quelle
ferite continuano a sanguinare, ciò che non le fa dolere sono artificiose
medicazioni, compromessi, che alla stregua di farmaci allopatici intervengono sul sintomo, alleviano il
dolore, lo rendono sopportabile, vivibile, ma tralasciano le cause e le
conseguenze. In questo modo il “non-senso” rimane una sorta di infezione non
curata, un virus rintanato in un bozzolo protettivo che al minimo cedimento di
tale protezione si riattiva come in passato.
Nei sogni si agitano continuamente intuizioni
inconsce, la sensazione è la coscienza di tali intuizioni. Quando abbiamo la
sensazione che quel sogno ci vuole comunicare un’intuizione importante, questo
può essere l’inizio di un lungo lavoro con noi stessi.
Quando la sensazione è ascoltata, si esaudisce
la progettualità dell’evento o provocazione dell’inconscio. La sensazione colma
la distanza incolmabile, e il desiderio tocca il suo oggetto d’amore. Tale
processo rende vitale il “gene originario” della psiche: il movimento verso la trasformazione
del pensiero, e la sua forma.
<<Bisogna essere in grado di intuire
l’intuizione!>>
Jung descrive l’attività del sogno:
<<La metà almeno della nostra vita
psichica ha il nostro essere notturno per teatro; e come la coscienza estende le
sue ramificazioni fin dalle nostre notti, così l’inconscio emerge nella nostra
vita diurna. (...) Chiamo i sogni “compensatori”, giacché contengono delle
percezioni, dei sentimenti e dei pensieri la cui mancanza lascia al conscio un
vuoto che è riempito dalla paura anziché esserlo dall’intelligenza. (...)
Secondo me, i sogni sono natura, che non nasconde la minima intenzione
ingannatrice e che dice quello che essa ha da dire come pure quello che può
dire - come fa una pianta che spunta o un animale che cerca il suo cibo. (...)
Il sogno ci comunica in un linguaggio simbolico, cioè con l’aiuto di
rappresentazioni immaginifiche sensoriali, idee, giudizi, concezioni,
tendenze.... che, represse o ignorate, erano inconsce>>.
(Jung, op. cit., E.G. Humbert, 1983,
pag. 26,27,28).
I sogni sono lo schermo di un’attività
inconscia che tende a mostrarsi visibilmente, e se l’intenzionalità della
coscienza è tesa verso la significazione di tale visione psicologica, può
avvenire la compenetrazione dei significati intrinseci al sogno. Se i
meccanismi difensivi attivano la rimozione dei contenuti onirici, anche
l’esperienza del sogno, quale possibilità accessibile all’esperienza della
coscienza, rimane taciuta, e il sogno viene immediatamente dimenticato.
Aprirsi all’incontro con l’“altro”, l’incontro
con il nuovo, con l’estraneità, significa fare la propria esperienza. Essa
costituisce lo spazio privato e inalterabile perché non condivisibile. In
questo spazio io mi manifesto e mi apro alla possibilità di comprendere un
“nuovo modo di essere al mondo”, ma soprattutto il mio modo di essere al mondo, il mio intimo segreto.
La libertà dell’individuo risiede proprio nel ritrovamento di una individuale formula che non precluda l’ineluttabile ambivalenza dell’essere al mondo.
Borges nel suo “Elogio dell’ombra” (1969): “Finché
dura il rimorso dura la colpa”.
La visione terminale del proprio essere eleva
l’uomo al punto che egli è capace di fissare nell’oscurità del suo mondo
interiore, e di trovare la luce senza rimanerne accecati.
Il significato del proprio
lamento interiore, si nasconde all’interno del disordine, nell’imprevedibile,
nell’incerto, in quanto nell’intimo del disordine risiede la strategia
dell’ordine e del senso di ogni cosa.
La differenziazione permette la comunicazione,
il confronto, e di conseguenza la relazione, senza della quale non vi sarebbe
alcuna possibilità di pensiero, e dunque, la sua trasformazione.
Non importa quando e come si commette
“l’errore”, ciò che conta è che dalle macerie dell’espressione estrema risorga
un nuovo atteggiamento psicologico,
disposto a mutare il punto
di vista.
Finché rimaniamo generici chiunque può
imitarci, mentre il nostro particolare non può imitarlo nessuno; perché? perché
gli altri non lo hanno vissuto.